LA VOCE DEI PRECARI

Associazione Istruzione Unita Scuola

lunedì 3 agosto 2020

ACCANIMENTO CONTRO GLI ASPIRANTI ATA


CENTINAIA POSTI DISPONIBILI PER ATA(AMMINISTRATIVI-TECNICI-AUSILIARI).
NESSUNA NOMINA NELLE SCUOLE DELLA PROVINCIA DI MILANO  PER MOLTI ATA IN GRADUATORIA D'ISTITUTO 2017/18, 2018/19, 2019/2020 PERCHE' ?
ECCO IL PROSPETTO DISPONIBILITA' DOPO I TRASFERIMENTIPERSONALE ATAANNO SCOLASTICO: 2020/21 DATA: 07/07/2020UFFICIO SCOLASTICO PROVINCIALE DI: MILANO

domenica 23 febbraio 2020

Coronavirus come calamità, pronti stop tasse e mutui

A breve nuovo Consiglio dei mimistri. Si lavora alle misure

Sospensione dei pagamenti di tasse e cartelle. Ma anche delle bollette elettriche. Accesso più facile al Fondo di garanzia delle Pmi. E un accordo con l’Abi per mettere in stand by anche le rate dei mutui.
Il governo si attrezza a trattare il Coronavirus come le calamità naturali e a mettere in campo, con un nuovo decreto legge, e “in tempi molto rapidi”, le stesse misure di sostegno economico che si applicano in caso di terremoti e alluvioni. E intanto convoca al ministero del Lavoro sindacati e aziende, per coordinare gli interventi a tutela dei lavoratori.
I tecnici del ministero dell’Economia sono rimasti al lavoro anche oggi – e il ministro Roberto Gualtieri in stretto contatto da Riad con il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte – per predisporre il nuovo provvedimento urgente che accompagnerà il primo decreto sul Coronavirus che ha consentito, intanto di isolare le ‘zone rosse’ dei focolai di Lombardia e Veneto.
La sospensione dei pagamenti dovrebbe riguardare sia i tributi erariali che quelli locali, oltre al versamento dei contributi previdenziali. Il Mef punta a inserire nel decreto anche facilitazioni per l’accesso delle imprese coinvolte dall’emergenza Coronavirus al Fondo di garanzia per le Pmi. E si sta valutando la fattibilità anche di altri interventi, come contributi per la ripresa delle attività una volta accertati i danni. In più, come fa sapere anche l’Abi, sono in corso in queste ore contatti con l’associazione delle banche per siglare un accordo che consenta anche la sospensione dei pagamenti delle rate dei mutui bancari.

mercoledì 5 febbraio 2020

Licenziamento per giustificato motivo: le indennità


Cosa è cambiato dopo il Decreto Dignità nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo: contestazione, conciliazione, indennità risarcitorie e differenze rispetto al Jobs Act.
17 Dicembre 2019Il Decreto Dignità, il Jobs Act e prima ancora la Riforma Fornero (legge n. 92/2012) hanno profondamente modificato il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, quando dettato da motivi economici.
Alla base restano le ragioni di riorganizzazione aziendale che portano a una riduzione del personale (tra le motivazioni applicabili, invece, non rientra la condotta del lavoratore): in ogni caso spetta al giudice verificare che il licenziamento costituisca l’ultima opzione in capo al datore di lavoro, che non ha altre possibilità di reimpiegare il lavoratore (repechage).
Contestazione
Il datore di lavoro deve comunicare il licenziamento al lavoratore indicando le ragioni.
Per i lavoratori assunti con il contratto a tutele crescenti (introdotto dal Jobs Act a partire dal 7 marzo 2015), il datore di lavoro può proporre una conciliazione in sede protetta (INL, sindacato, commissione di certificazione) entro 60 giorni dalla comunicazione del licenziamento, proponendo un risarcimento economico da pagare con assegno circolare o altra forma di accordo prevista dalla legge.
A prescindere dalle tutele crescenti, se il lavoratore ritiene che la decisione sia ingiusta può procedere con la contestazione, impugnando il licenziamento entro 60 giorni dalla comunicazione, inviando lettera raccomandata anche al datore. Nei successivi 180 giorni (non oltre, pena l’inefficacia dell’impugnazione) dovrà procedere al deposito del ricorso e alla richiesta al datore di lavoro di un tentativo di conciliazione.
Numero e importo indennità
Quando il licenziamento per motivi economici è dichiarato illegittimo da parte del Giudice scattano le sanzioni in capo al datore di lavoro, sulle quali è  intervenuto il Legislatore. In particolare, la legge di conversione del Decreto Dignità (legge n. 96/2018) ha previsto una rimodulazione dell’indennità risarcitoria in caso di verifica, da parte di licenziamento illegittimo di lavoratori a tempo indeterminato (articolo 3, comma 1, Decreto Legislativo n. 23/2015) e della conciliazione proposta dal datore di lavoro (articolo 6 dello stesso decreto).
L’indennità a titolo di risarcimento in caso di licenziamento illegittimo va dalle 6 alle 36 mensilità pari dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, anche se assunto da meno di 3 anni (con il Jobs Act andavano da 4 e 24). L’importo annuale rimane fisso ad una o due mensilità ogni anno di servizio. Più in particolare:
  • da 6 a 36 mensilità per aziende oltre i 15 dipendenti (articolo 18, commi 8 e 9, dello Statuto dei Lavoratori)
  • da 3 e 6 mensilità per aziende sotto i 16 dipendenti.
L’indennità non è prevede contribuzione previdenziale (le frazioni di anno d’anzianità di servizio e le indennità sono riproporzionate, tenendo a mente che le frazioni di mese uguali o superiori a 15 giorni si computano come mese intero).
NB: Per i licenziamenti illegittimi di natura disciplinare, l’importo è variabile in base al tipo di conciliazione e l’indennità è pari a 2 mensilità per ogni anno di servizio.  In ogni caso, non si può andare oltre le 12 mensilità.Per i licenziamenti discriminatori o nulli non c’è indennità perché scatta la reintegra.
Revoca licenziamento
Per evitare impugnazione e indennità, il datore può procedere alla revoca del licenziamento entro 15 giorni dalla comunicazione della contestazione da parte del lavoratore, offrendogli alternativamente una somma, modificata dal Decreto Dignità nella seguente misura:
  • pari a una mensilità per ogni anno di servizio;
  • tra 3 e 27 mensilità per aziende oltre 15 dipendenti
  • tra 1,5 e 6 mensilità per aziende sotto i 16 dipendenti.
Se il lavoratore accetta, il rapporto di lavoro si intende estinto alla data del licenziamento e l’impugnazione decade

venerdì 31 gennaio 2020

Lavoro, il fallimento del Jobs act: precari record oltre i 3 milioni


La disoccupazione giovanile resta al 28,9%. Dal Jobs act al Decreto dignità, la tendenza non cambia

In pochi anni l’Italia del lavoro è passata attraverso il Jobs act e il Decreto dignità, entrambe misure presentate come panacea contro il precariato. Invece i numeri dicono l’esatto contrario, e cioè che il numero di lavoratori precari, oltre 3 milioni, rappresenta un vero e proprio record storico.
Nell’ultimo mese dell’anno tornano a calare gli occupati: a scendere, con un’inversione di rotta, i lavoratori dipendenti permanenti (-75mila), ovvero coloro che hanno il posto fisso. Calano anche gli indipendenti (-16mila), mentre c’è un aumento tra i dipendenti a termine (+17mila). Nuovo massimo storico per quanto riguarda i precari, che aumentano di 17mila unità, arrivando a toccare quota 3 milioni 123mila.
Il tasso di disoccupazione in Italia risulta stabile al 9,8%, lo stesso livello già registrato a novembre. Il numero delle persone in cerca di lavoro segna un “lieve” aumento su base mensile (+2mila). Nel dettaglio, i disoccupati crescono tra gli uomini (+28mila) e tra gli under 50, a fronte di una diminuzione tra le donne (-27mila) e gli ultracinquantenni.
Il numero di lavoratori autonomi a dicembre scende di 16 mila unità su base mensile, con il totale che tocca il minimo storico dal 1977. Lo rileva l’Istat. Ormai in Italia gli indipendenti si fermano a 5 milioni e 255 mila.
Eurostat: disoccupazione ai minimi nella zona euro
Disoccupazione ai minimi dal 2008 a dicembre nella zona euro. Lo rileva Eurostat, secondo cui il tasso di disoccupazione nell’eurozona si è attestato al 7,4% a dicembre. A novembre il tasso di disoccupazione era stato del 7,5%, mentre a dicembre del 2018 era al 7,8%.Tra i 19 paesi della zona, Germania e Paesi Bassi registrano il tasso di disoccupazione più basso (3,2%), mentre i tassi più elevati si confermano quelli di Grecia e Spagna. Nei 28 paesi dell’UE, il tasso di disoccupazione si è attestato al 6,2% a dicembre, in calo rispetto al 6,3% di novembre.

venerdì 24 gennaio 2020

Lavoro: professionisti tecnici introvabili



Nell’arco dei prossimi tre anni saranno 200mila i posti di lavoro disponibili nei settori tecnico-scientifici, tuttavia le imprese sembrano lamentare una notevole difficoltà nel reperire professionisti qualificati.
Stando a quanto è emerso nel corso della XXVI giornata di Orientagiovani promossa da Confindustria e Luiss, infatti, il fabbisogno delle competenze riguarda nello specifico il settore della meccanica, il ramo dell’ICT ma anche l’alimentare, il tessile, la chimica e il legno-arredo.
Dietro la carenza di esperti si cela, inoltre, un’offerta formativa insufficiente per le competenze scientifiche e tecniche medio-alte. Solo nella meccanica, saranno 67mila i nuovi posti di lavoro destinati ai professionisti manageriali e ai talenti di elevata specializzazione (ingegneri, progettisti e specialisti in scienze informatiche).
I comparti della chimica, della farmaceutica e della fabbricazione di prodotti in gomma e plastica offriranno 16mila posti di lavoro, mentre saranno 40mila le risorse ricercate nell’ICT tra il 2020 e il 2022: le opportunità non mancheranno per il programmatore, il progettista/sviluppatore di software e app, il data-scientist il progettista di apparecchiature informatiche e loro periferiche e il progettista di impianti per le telecomunicazioni.
Un trend positivo caratterizza anche il settore alimentare, con la previsione di 45mila ingressi, così come il ramo tessile che darà lavoro a 25mila persone.


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lunedì 20 gennaio 2020

Leggere come raccogliere e altre 99 storie: il nuovo libro di Marcolongo è un viaggio all’origine delle parole. Per dare anche un nome alle emozioni

La parola libertà, invece, dal latino libertaseleuthería in greco, risale ad un’antichissima radice indoeuropea *leudhero-, ovvero colui che ha il diritto di appartenere a un popolo o felicità, dal latino felix, deriva dalla stessa radice verbale indoeuropea *fe- di fecundus, che significa fertile, produttivo perché quando si è felici ci si vuole circondare di attività stimolanti che ci trasmettano benessere e voglia di fare.


"Alla fonte delle parole" è una raccolta - a esclusivo gusto personale - di 99 etimologie selezionate dall'autrice della "Lingua geniale". Così possiamo scoprire la radice di "libertà" e "felicità", riuscendo a dare il peso specifico autentico ai vocaboli che usiamo. E così anche a usufruire della libertà di esprimere noi stessi
di Stefania Massari | 20 GENNAIO 2020
Verbi, aggettivi, sostantivi: 99 vocaboli da scoprire, dalle loro origini alla loro evoluzione nel corso dei secoli. E’ l’affascinante viaggio alla ricerca del significato originario delle parole per decifrare la realtà che ci circonda dentro Alla fonte delle parole. 99 etimologie che ci parlano di noi (Mondadori, 288 pagg, 18 euro), il nuovo lavoro di Andrea Marcolongo, che già ci aveva fatto appassionare alla Lingua geniale (il greco) e a La misura eroica, il mitico viaggio degli Argonauti. Il criterio utilizzato dall’autrice per selezionare i 99 lemmi è essenzialmente uno: il suo gusto personale. A dimostrazione del fatto che i lettori non troveranno un preciso ordine alfabetico da seguire, ma potranno iniziare a leggere gli etimi a seconda della curiosità che proveranno in quel momento.

Nominare la realtà significa sottrarsi alla confusione. Un atto, questo, innanzitutto intellettuale perché prima ancora di tradurla in parole è nel pensiero che essa prende forma e consistenza. Non a caso, nell’incipit Marcolongo cita la scrittrice Elena Ferrante che nell’Invenzione occasionale scrive: “Le parole, la grammatica, la sintassi sono uno scalpello che scolpisce il pensiero”. E sempre nell’incipit cita lo studio dell’antropologo Robert Levy condotto a Tahiti. Quale poteva essere il motivo alla base del numero spropositato di suicidi che si verificavano tra i suoi abitanti? Levy scoprì che nella lingua tahitiana mancavano parole per esprimere il dolore. Questo portava uomini e donne a togliersi la vita. Allora ecco spiegata l’importanza di recuperare i significati originari delle parole che ci permettono di usufruire della libertà di esprimere noi stessi.
Ad esempio, il verbo leggere deriva dalla radice indoeuropea *lag- presto diventata panromanza e non solo. In greco antico, si traduceva nel verbo λέγω (légo), che rimandava al latino legere, che significava sia “raccogliere“, sia “scegliere“, sia “raccontare” o “dire“. I francesi dicono lire, gli spagnoli leer, i portoghesi lêr, i tedeschi lesen, i lituani lèsti che significava letteralmente “raccogliere con il becco“. Proprio come fanno i lettori, quando si recano in una libreria, che con la vista acuta come quello di un falco, si fiondano fra gli scaffali per accaparrarsi il libro che hanno scelto.
Oppure fiducia, dal latino fides, contiene una radice che rimanda alla fedeFidarsi di qualcuno, infatti, è un impegno grandissimo. Nel Medioevo si usava il termine fidanza, da cui deriva anche la parola fidanzato ed essere fidanzati infatti è un impegno solenne, proprio come lo erano i Promessi Sposi manzoniani perché la fiducia richiede una cura costante per non deludere chi ti sta vicino.
La parola libertà, invece, dal latino libertaseleuthería in greco, risale ad un’antichissima radice indoeuropea *leudhero-, ovvero colui che ha il diritto di appartenere a un popolo o felicità, dal latino felix, deriva dalla stessa radice verbale indoeuropea *fe- di fecundus, che significa fertile, produttivo perché quando si è felici ci si vuole circondare di attività stimolanti che ci trasmettano benessere e voglia di fare.
Come si può notare da questi esempi, la scrittrice cita spesso i popoli indoeuropei perché ebbero il coraggio di coniare la radice delle parole che non esprimeva tanto un suono percepito all’esterno, quanto il loro proprio sentire.
Il libro, quindi, si propone di essere una guida per arricchire la nostra conoscenza e per dare un senso a ciò che diciamo perché le parole hanno un peso specifico e farne un uso improprio significherebbe condurre il nostro pensiero verso una realtà distorta dove odio e pregiudizio avrebbero la meglio e Andrea Marcolongo è riuscita, ancora una volta, grazie alla sua sensibilità e profonda dedizione nei confronti del sapere, a tenderci una mano per non sentirci smarriti dinanzi ai vuoti che non ci permettono di dare un nome alle emozioni che proviamo e per trovare la strada maestra che ci porti a fare chiarezza e ordine dentro noi stessi affinché il caos non prenda il sopravvento.
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venerdì 17 gennaio 2020

Disoccupazione: come fare domanda con mod. SR 163


Dove scaricare il Modello SR 163 per effettuare la richiesta di pagamento di prestazioni a sostegno del reddito, come la disoccupazione, bonus e peone.
Il Modello SR 163 INPS è stato introdotto dall’Istituto previdenziale per certificare nei casi di pagamento di prestazioni a sostegno del reddito l’identità del titolare del c/c bancario o postale, carta prepagata e libretto postale con IBAN.
Il modello SR 163 può essere scaricato direttamente da PMI.it, diversamente è reperibile sul sito istituzionale dell’INPS.
Il mod. INPS SR 163 va compilato obbligatoriamente da parte del lavoratore in disoccupazione che richiede il pagamento dell’indennità a pagamento diretto su IBAN.
In realtà questo modello deve essere utilizzato tutte le volte che si richiede il pagamento della diretto INPS sull’IBAN, ad esempio per ottenere il bonus mamma domani o il bonus bebè.
Il Modello SR 163 serve a certificare che l’IBAN sul quale si intende ricevere il pagamento dall’INPS è intestato proprio alla persona che è titolare del beneficio.
Il modello va compilato in tutti i suoi campi indicando i propri dati anagrafici, il tipo di prestazione a cui si riferisce (es. NASpI, ANF a pagamento diretto INPS ecc.) e la modalità di pagamento, ovvero tramite ufficio postale o con accredito su c/c bancario o postale, libretto postale e carta prepagata con IBAN.
Per l’accredito su c/c bancario o postale, libretto postale e carta prepagata con IBAN bisogna indicare anche l’IBAN

lunedì 13 gennaio 2020

Lavoro in Basilicata, i sindacati alla Regione: confrontiamoci sulle prospettive per il 2020


Le segreterie regionali di Cgil, Cisl e Uil in una nota congiunta si appellano al Governo regionale affinché l’anno appena iniziato segni un nuovo passo nelle politiche del lavoro.
“Il 2020 si apre con l’annuncio da parte del presidente Bardi del rinnovo – per altri 6 mesi – della misura di Reddito minimo di inserimento e con l’avvio di una nuova misura, in continuità con i Tis (Tirocini di inclusione sociale). Ricordiamo che le misure coinvolgono circa 1700 persone per quanto riguarda il Rmi e 640 per ciò che riguarda i Tis. Una platea dunque molto ampia che coinvolge un gran numero di persone, alle quali è necessario offrire una prospettiva. A questo è necessario aggiungere alcune considerazioni più ampie che riguardano le politiche attive del lavoro della Regione”.
E’ con queste parole che le segreterie regionali della Basilicata di Cgil, Cisl e Uil, aprono il testo di una nota indirizzata all’esecutivo regionale sollecitando ulteriormente l’organismo sulle tante questioni “in attesa di confronto”.

Di seguito la nota integrale

Garanzia Giovani, utilizzo delle risorse dei fondi europei, attivazione dell’Osservatorio mercato del lavoro. Garanzia Giovani ha una dotazione, per ciò che attiene alla II fase, di circa 12 milioni di euro. È fondamentale che si metta in atto un monitoraggio costante della misura e dei risultati prodotti, anche attraverso gli strumenti previsti nel Par II fase e, soprattutto, con il coinvolgimento costante – che non sia meramente formale – delle parti sociali.
Osservatorio mercato del lavoro, istituito nel 2016, insediatosi ma mai divenuto realmente operativo è uno strumento a disposizione delle parti, con funzioni e compiti di analisi del mercato del lavoro a livello regionale e di supporto alla progettazione delle politiche attive del lavoro integrate, nonché di monitoraggio e valutazione delle politiche attivate e dei servizi erogati a livello territoriale. L’Osservatorio va reso immediatamente operativo, al fine di dotarsi di un punto di snodo per la valutazione delle politiche del lavoro.
L’utilizzo delle risorse senza una visione d’assieme, con erogazione a pioggia, ne determina il dispendio senza risultati utili. Ciò è vero anche e soprattutto per ciò che riguarda le risorse comunitarie. È di qualche giorno fa il rapporto dell’agenzia per la coesione territoriale sulla spesa certificata relativa ai fondi UE. Si tratta di risorse ingenti, gran parte delle quali ancora da spendere, peraltro. Esiste un problema sulla capacità di spesa, ma esiste anche un problema di qualità della spesa. Spesso, le risorse sono utilizzate senza una visione programmatica, con erogazioni diffuse che non hanno reali effetti sul sistema economico regionale. C’è inoltre un tema di reale coinvolgimento delle parti sociali, spesso solo formale e non sostanziale, come anche evidenziato da un documento nazionale unitario di Cgil, Cisl, Uil e Confindustria, che hanno evidenziato la necessità di prevedere il diritto di voto in tutti i comitati di sorveglianza e comunque una reale e più incisiva funzionalità degli stessi, con più specifiche funzioni di indirizzo e controllo.
È fondamentale che si convochi quanto prima un tavolo di confronto a tutto tondo che porti a una elaborazione condivisa sui temi in questione, in particolare è urgente confrontarsi sui destini dei beneficiari Rmi e Tis, a partire da subito, onde evitare di dover intervenire in emergenza con soluzioni pasticciate e non concertate con le parti.
 Donato Mola


domenica 12 gennaio 2020

Più Stato non aiuta la crescita




Il guaio vero è che mentre per noi la crisi continua, nel resto del mondo sta forse per arrivare la fine di un ciclo che per gli altri è stato positivo.


Sarebbe bello iniziare il nuovo anno con l’ottimismo e le speranze che fanno parte del repertorio degli auguri che ci scambiamo alla mezzanotte di San Silvestro, ma il 2020 non si presenta con un profilo favorevole. Esserne consapevoli è già qualcosa, perché ingannare se stessi non farebbe un buon servizio al Paese.
I dati disponibili sono molteplici, ma possiamo limitarci a due soltanto. Il più angosciante a noi sembra quello della produttività, che è ferma da 20 anni. E’ l’indicatore decisivo della nostra stasi.
Dentro la produttività c’è tutto quel che serve. Senza produttività non salgono i salari reali, non cresce la competizione delle nostre imprese, e tutto si scarica sullo Stato, a cui infatti si tende ad aggrapparsi di nuovo. Lo Stato nel Monte dei Paschi, lo Stato all’Ilva, lo Stato all’Alitalia, lo Stato nelle 160 crisi aziendali. Lo Stato che piace ad una classe politica debole che pensa di rinforzarsi acquisendo più potere di controllo interno, anzichè occupare lo spazio lasciato dalla Brexit e darsi una politica estera da protagonisti, almeno sulla Libia.
Quanto poi al Pil, possiamo anche considerarlo un criterio vecchio rispetti ad altri indici di benessere reale, ma ha ancora un senso, se non altro quello della comparazione internazionale. La tabella commentata nei giorni scorsi da Federico Fubini sul Corriere è davvero scoraggiante. Siamo all’ultimo posto nel recupero della crescita dal momento più profondo della crisi, che per noi è stato il 2013. La derelitta Grecia è cresciuta il doppio, e i Paesi che stanno attorno o sopra il 10%, cioè sopra il recupero di quanto perduto, sono tutti quelli paragonabili al nostro. Lasciamo stare gli Stati Uniti del 22% e la Svezia del 27%, ma la Germania è salita del 16,6% e la Francia dell’11,3%. Noi, ripetiamo, abbiamo ripreso il 4% e questo significa tagli al nostro tenore di vita, ai nostri risparmi e soprattutto ai nostri progetti individuali e famigliari.
Per forza, non si può crescere dello zero virgola quando va bene (unica eccezione il +1,7 del 2016, ma dato che si tratta del governo Renzi, si rischia un’accusa di partigianeria), e anche quest’anno ci viene promesso uno 0,6% che difficilmente raggiungeremo.
Quel che serve è una svolta nelle riforme vere (noi pensiamo alla riduzione dei parlamentari…) ma quello che vediamo è ancora mancanza di coraggio e un’analisi fuorviante. Prendiamo la questione tasse. Non c’è giorno in cui non si denunci la loro crescita. Eppure il dato oggettivo è un -0,1% di pressione fiscale, anche al netto dei 23 miliardi di Iva non scattata. La narrazione populista ma anche quella anti populista paralizzano la questione. Una rimodulazione dell’IVA non sarebbe stata uno scandalo, ma nessuno ci prova, in un clima da elezioni imminenti. Arriviamo ad azzardare che non sarebbe scandalosa una crescita fiscale, compensata da una crescita economica, se solo fosse finalizzata a obiettivi che realmente riguardino le due questioni da cui siamo partiti: Pil e produttività. Nella manovra sono per fortuna restate alcune delle norme su industria 4.0, ma sembrano astrazioni da addetti ai lavori. Non rendono elettoralmente, comunque. Vuoi mettere un bel talk show sull’immigrazione, anche se il tema è ormai fuori dal qualunque emergenza?
Torna piuttosto una voglia di statalizzazione che è esattamente il contrario di ciò che ha consentito agli altri Paesi di ritornare a galla. Tutto è possibile, del resto. Se Conte viene definito il miglior leader progressista, se nel PD la leadership è condizionata tra le quinte da un Bettini che nessuno conosce ma è quello che detta la strategia, se il più grande gruppo parlamentare è senza guida e ancora alle prese con deprimenti questioni di scontrini da rimborsare, ultima spiaggia dell’antipolitica, come può una grande potenza economica affrontare questioni che fanno tremare i polsi ad un Macron e provocano il declino di una Merkel?
Il guaio vero è che mentre per noi la crisi continua, nel resto del mondo sta forse per arrivare la fine di un ciclo che per gli altri è stato positivo. Se la crescita mondiale tornerà in affanno, cosa accadrà ad un’Italia che dall'affanno non riesce mai ad uscire?Beppe Facchetti
LINK http://www.pensalibero.it/piu-stato-non-aiuta-la-crescita/

sabato 11 gennaio 2020

Crisi del lavoro e calo demografico: i gemelli diversi


La maggiore preoccupazione degli italiani è il lavoro.E,sebbene i dati sembrino smentirli,è fondata,con il calo demografico che minaccia la crescita.
 Il lavoro è il problema numero uno nella gerarchia delle priorità degli italiani, la prima questione di cui dovrebbe farsi carico l’agenda di governo. Secondo gli ultimi dati dell’Eurobarometro ‒ l’istituto incaricato di sondare periodicamente le opinioni pubbliche europee ‒ la disoccupazione preoccupa il 44% degli italiani, cioè il doppio rispetto alla media dei cittadini europei (21%). Al di fuori di ogni retorica e propaganda, nel nostro Paese la mancanza di lavoro, o di un impiego soddisfacente, assilla il doppio rispetto all’immigrazione (segnalata dal 22%), più di tre volte rispetto al tema delle pensioni (12%), cinque volte di più della criminalità (9%).

Crisi del lavoro: in Italia aumenta l’occupazione ma diminuiscono le ore lavorate

Come mai si raccolgono queste inquietudini proprio nel momento in cui il tasso di occupazione nel nostro Paese ha raggiunto una cifra da record? A prima vista potrebbe apparire come una percezione incoerente, visto che negli ultimi quattro anni il numero di occupati in Italia è tornato a crescere. Anzi, dopo un lungo periodo di flessione, alla fine del 2018 alla conta risultavano 321.000 occupati in più rispetto al 2007, l’ultimo anno prima dell’inizio della crisi, con un incremento dell’1,4% rispetto ad allora. Insomma, si può correttamente affermare che abbiamo recuperato tutti i posti di lavoro persi a causa della crisi e che l’impatto in termini occupazionali della lunga recessione è stato pienamente riassorbito.
Qualcuno ha esultato: «Non si vedevano questi numeri dal lontano 1977». Difficile risalire più indietro nel tempo, per la verità, perché l’Istat ha ricostruito la serie storica dei principali aggregati del mercato del lavoro proprio a partire da quell’anno. Ma, al di là della ovvietà di questa considerazione, la vera domanda è: se in questi anni si è creata così tanta occupazione, perché l’economia non cresce? Per il 2019 la crescita del Pil attesa oscilla tra lo 0,1% (come rimportato nella Nota di aggiornamento al Def) e lo 0,2% (come stimato dall’Istat e confermato dalla Commissione europea). Qualcosa non torna.
In realtà, la risposta è semplice. Il dato sugli occupati non si può leggere isolatamente. Infatti, in questi anni, mentre i lavoratori aumentavano, è crollato il numero delle ore lavorate. Nell’ultimo anno sono state 2,3 miliardi in meno nel confronto con il 2007: si sono ridotte del 5%. Da cosa è dipeso?

I veri dati sulla disoccupazione

Innanzitutto, non dobbiamo dimenticare che al momento ci sono ancora 160 tavoli aperti per crisi aziendali presso il Ministero dello sviluppo economico. E che nell’ultimo anno le ore di cassa integrazione sono state 216 milioni, ancora 32 milioni in più di dieci anni fa. Si noti che i cassintegrati formalmente un impiego ce l’hanno, quindi statisticamente ingrossano le file degli occupati: può sembrare un paradosso, ma è così.
In aggiunta, in questi anni si è verificata una crescita straordinaria degli impieghi part timeaumentati del 38% rispetto al 2007. Gli occupati che lavorano a tempo parziale sono 4,3 milioni. E ad aumentare in maniera ancora più rilevante è stato il part time involontario: +131% rispetto al 2007, ovvero 1,5 milioni di lavoratori in più da allora. Oggi due terzi delle persone con un impiego a tempo parziale ne vorrebbero uno a tempo pieno, ma non riescono a trovarlo.
Questa condizione riguarda in modo particolare i giovani. Da questo punto di vista, il lavoro è diventato uno dei principali generatori di disuguaglianze sociali. La tendenza descritta si è consolidata anche nel 2019: nel primo semestre dell’anno gli occupati totali sono aumentati dello 0,5% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, gli occupati con un lavoro part time del 2% e quelli con un part time involontario del 2,9%.
Tirando le somme di questa lunga carrellata di dati risulta che, poiché si è ridotto il numero medio di ore lavorate per addetto, le unità di lavoro a tempo pieno equivalenti sono diminuite del 3,8% rispetto al periodo pre-crisi: sono 959.000 in meno. Risultato? Cresce l’occupazione, è vero, ma non le retribuzioni, i redditi e il Pil. L’ottimismo, allora, va ricondotto a innocenti abbagli statistici oppure dalla propaganda politica. Perché, in realtà, c’è poco da essere contenti. Ecco perché il lavoro resta in cima alle preoccupazioni degli italiani.

Gli effetti economici del calo demografico

E per il futuro? Che cosa dobbiamo aspettarci? Una delle questioni che nei prossimi anni impatteranno maggiormente sul mercato del lavoro è senza alcun dubbio la radicale transizione demografica che stiamo vivendo. Pochi lo sottolineano, ma l’Italia è ormai da quattro anni in flessione demografica. La popolazione ha cominciato a diminuire dal 2015: non era mai accaduto prima nella nostra storia. Visto attraverso la lente degli indicatori demografici, il nostro appare un Paese sempre più invecchiato, con pochi giovani e pochissime nascite.
Un Paese rimpicciolito. Già, perché rispetto al 2015 la popolazione complessiva conta 436.000 cittadini in meno. È l’effetto del mancato ricambio generazionale: nell’ultimo anno sono nati solo 440.000 bambini ‒ il minimo storico da quando possediamo statistiche demografiche, ovvero l’anno 1861 ‒ e il saldo migratorio non compensa più il saldo naturale (nascite meno decessi).
Ma quello che è ancora più inquietante è lo scenario che dobbiamo attenderci di qui ai prossimi trent’anni. Secondo le proiezioni dell’Eurostat, nel 2050 la popolazione italiana sarà diminuita di 4,5 milioni di persone, scendendo dagli attuali 60,3 milioni a 55,8 milioni. È come se le due principali città italiane, Roma e Milano insieme, scomparissero. Le previsioni della divisione di statistica delle Nazioni Unite sono ancora più pesanti: ipotizzando minori flussi migratori, la riduzione attesa è di 6,2 milioni di persone.
Nelle scienze sociali ed economiche, le previsioni demografiche sono quelle più affidabili, perché si basano sul calcolo della riduzione del numero delle donne in età fertile, che si è notevolmente ridotto a causa della parabola di denatalità che abbiamo registrato negli ultimi anni. E non c’è bisogno di ricordare che una delle principali variabili correlate al peso economico e politico di un Paese sul piano internazionale è proprio il suo peso demografico. La domanda da porsi è: come questi cambiamenti influenzeranno il mondo del lavoro? Il punto è che la riduzione di popolazione si concentrerà nella fascia di età attiva 15-64 anni: 8,7 milioni di persone in età lavorativa in meno secondo l’Eurostat, 10,3 milioni in meno secondo le Nazioni Unite.
La piramide demografica completamente rovesciata e la riduzione della popolazione attiva si tradurrebbero in una forte contrazione dell’economia, con gravi implicazioni per la sostenibilità del nostro debito pubblico e della spesa sociale, sempre più necessaria in ragione dell’invecchiamento della popolazione in termini di sanità, assistenza, pensioni.

Le politiche per la genitorialità e le pari opportunità come chiave per il futuro

Sono prospettive davvero allarmanti: un annunciato shock demografico ed economico. Che fare, dunque?
Servono senza più esitazioni politiche di sostegno alla genitorialità ‒ un ambito in cui il nostro Paese non ha mai brillato ‒ con interventi drastici e strutturali. E serve una seria politica di programmazione dei flussi migratori in entrata, al di là dell’emergenza e della gestione della prima accoglienza. Ma c’è un ulteriore capitolo di interventi ispirato direttamente dalle previsioni demografiche. Sarà indispensabile portare a livelli di saturazione tutta la (poca) energia lavorativa disponibile, favorendo l’ingresso nel mondo del lavoro di chi ne è maggiormente escluso: i giovani e le donne.
Il tasso di disoccupazione giovanile in Italia è tra i più alti d’Europa e il tasso di attività femminile è semplicemente il più basso rispetto a tutti gli altri Paesi: oggi è al 56,2%, nettamente inferiore al 75,1% degli uomini. Le potenzialità sono perciò enormi. In questo caso servono misure per conciliare l’attività lavorativa con gli impegni familiari, di cui le donne si fanno carico in modo prevalente (cura dei figli, assistenza a persone anziane, faccende domestiche). Non solo bonus bebè e asili nido pubblici, ma anche e congedi parentali più generosi.
Al punto in cui siamo, non si tratta più solo di garantire pari opportunità nell’accesso al mercato del lavoro, di tipo generazionale (favorendo i giovani esclusi rispetto alle persone più avanti con l’età) e di genere (incoraggiando le donne ai margini rispetto agli uomini). Perché in gioco c’è il destino dell’intero Paese.
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mercoledì 8 gennaio 2020

Il gioco si è fatto duro e l’Italia si ritrova con una classe politica floscia



E’ stata pura follia distruggere una classe politica che si era fatte ossa ed esperienza nel corso di alcuni decenni per mettere la guida del Paese in mano a pasticcioni, improvvisatori e, diciamolo pure, ignoranti.


Primo: è stata pura follia distruggere una classe politica che si era fatte ossa ed esperienza nel corso di alcuni decenni per mettere la guida del Paese in mano a pasticcioni, improvvisatori e, diciamolo pure, ignoranti che ora balbettano per palese inadeguatezza a sostenere il peso delle reponsabilità degli eventi e dei momenti eccezionali.
Secondo: altro che sovranismo e nebbie buone solo a nascondere il pressapochismo e le idee confuse. La classe politica che incredibilmente ha preso il timone dell’Italia ci ha riportato ai tempi poco gloriosi dell’Italietta che nessuno prendeva sul serio e tutti prendevano per I fondelli. Ma ora, il tempo delle chiacchiere portate via dal vento è finito. L’Europa è certo una creatura imperfetta e debole. Ma solo rafforzandola saremo in grado di svolgere un ruolo nei tempi duri che si preannunciano. Ve lo immaginate affidare le sorti della nostra penisola a Di Maio o/e Salvini? Da farci ridere dietro! Giochi e giochetti non sono più consentiti.
Credo che le cose stiano fortunatamente cambiando. Il Movimento dei 5 Stelle, il principale pilastro e beneficiario di questa pazzia collettiva sta franando. Meno di due anni fa, con candidati improbabili (in altre epoche sarebbero stati presi a pomodori in faccia) raccolse il 33% dei voti. Ora lo danno al 17%. Bene che vada, prenderà il 7 o l’8%. I suoi voti ed i suoi temi sono stati assorbiti dalla Lega di Salvini. La quale Lega, viaggia tra il 30 e il 32%. Potrebbe arrivare tra il 46 e il 48% assieme a FdI di Giorgia Meloni e Forza Italia dell’eterno, ma non si sa quanto lucido Berlusconi. Le regionali del 26 gennaio, in Emilia e Calabria potrebbero riaprire i giochi. Cioè, uno scenario fino a poco fa inimmaginabile:uno schieramento di centro destra ed uno di centro sinistra che si contendono il governo del Paese con pari possibilità di vittoria. E tutto questo grazie allo sgretolamento repentino di quello che f u ilprimo partito italiano. C’è poi, nei due schieramenti, una simmetria che fa riflettere. Se la Lega di Salvini ancora può coltivare sogni di vittoria, lo deve alla crescita Del partito della Meloni e alla tenuta incredibile e imprevista di Berlusconi. E così, nel centro sinistra, le speranze di vittoria sono legate al risveglio di quell’universo laico, liberale e socialista che al momento è soltanto una nebulosa. Chi l’avrebbe detto, dopo avere celebrato tanti de profundis, che ancora una volta per le sparse e affaticate schiere laiche, liberali e socialiste si sarebbe presentata una nuova occasione? E che ancora una volta questa occasione, per gelosie, vanità, insipienza potrebbe essere gettata al vento? Ve lo giuro, sarebbe la volta che questo mondo, al quale sento di appartenere, lo mando a quel paese.

lunedì 6 gennaio 2020

Due milioni di meridionali verso il Nord: "Altro che immigrazione, è questa l'emergenza"

Rapporto Svimez 2019 | Due milioni di meridionali verso il Nord: "Altro che immigrazione, è questa l'emergenza"
Pil sotto zero nel 2019. E la ripresa dei flussi migratori interni è "la vera emergenza meridionale": lo Svimez fotografa un presente (e un futuro) a tinte fosche per il Sud Italia

Negli  ultimi 15 anni quasi due milioni di meridionali si sono spostati al Centro Nord Italia. In sostanza, sono di più i meridionali che emigrano dal Sud per andare a lavorare o a studiare al Centro Nord e all’estero che gli stranieri immigrati regolari che scelgono di vivere nelle regioni meridionali. "E' un'emergenza le cui dimensioni superano il fenomeno dell'immigrazione", dice Luca Bianchi, direttore dello Svimez (Associazione per lo sviluppo industriale del Mezzogiorno), in occasione dell'anticipazione del rapporto 'L'economia e la società del Mezzogiorno'.
Rapporto Svimez: al Sud più emigrati che immigrati, rischio spopolamento
Facciamo parlare i numeri. Gli emigrati dal Sud tra il 2002 e il 2017 sono stati oltre 2 milioni, di cui 132.187 nel solo 2017. Di questi ultimi 66.557 sono giovani (50,4%, di cui il 33% laureati). Il saldo migratorio interno, al netto dei rientri, è negativo per 852 mila unità. Nel solo 2017, si legge, sono andati via “132 mila meridionali, con un saldo negativo di circa 70 mila unità.
L’emergenza emigrazione del Sud determina una perdita di popolazione, soprattutto giovanile, e qualificata, solo parzialmente compensata da flussi di immigrati, modesti nel numero e caratterizzati da basse competenze. Questa dinamica determina soprattutto per il Mezzogiorno una prospettiva demografica assai preoccupante di spopolamento, che riguarda in particolare i piccoli centri sotto i 5mila abitanti.
Rapporto Svimez: 2019 in recessione per il Sud, il Pil andrà sotto zero
Se l’Italia non cresce nel suo complesso, il Sud arranca sempre di più, al punto che il divario con il resto d’Italia aumenta progressivamente. "Nel quadro di un progressivo rallentamento dell’economia italiana, si è riaperta la frattura territoriale che arriverà nel prossimo anno a segnare un andamento opposto tra le aree, facendo ripiombare il Sud nella recessione da cui troppo lentamente era uscito", si legge nel rapporto Svimez 2019. In base alle previsioni, l’Italia farà registrare una sostanziale stagnazione, con incremento lievissimo del Pil del +0,1%. Il Pil del Centro-Nord dovrebbe crescere poco, di appena lo +0,3%. Nel Mezzogiorno, invece, l’andamento previsto è negativo, una dinamica recessiva: -0,3% il Pil. Nell’anno successivo, il 2020, Svimez prevede che il Pil meridionale riprenderà a salire segnando però soltanto un +0,4%.
Cresce il gap occupazionale al Sud
Il gap occupazionale del Sud rispetto al Centro-Nord nel 2018 "è stato pari a 2 milioni 918 mila persone, al netto delle forze armate” sottolinea poi lo Svimez che spiega come la dinamica dell’occupazione al Sud presenti dalla metà del 2018 "una marcata inversione di tendenza, con una divaricazione negli andamenti tra Mezzogiorno e Centro-Nord". Gli occupati al Sud negli ultimi due trimestri del 2018 e nel primo del 2019 “sono calati di 107 mila unità (-1,7%)", nel Centro-Nord, invece, nello stesso periodo, "sono cresciuti di 48 mila unità (+0,3%)".
L’indebolimento delle politiche pubbliche nel Sud, poi, incide significativamente sulla qualità dei servizi erogati ai cittadini. Il divario nei servizi è dovuto soprattutto ad una minore quantità e qualità delle infrastrutture sociali e riguarda diritti fondamentali di cittadinanza: in termini di sicurezza, di adeguati standard di istruzione, di idoneità di servizi sanitari e di cura. Nel comparto sanitario vi è un divario già nell’offerta di posti letto ospedalieri per abitante: 28,2 posti letto di degenza ordinaria ogni 10 mila abitanti al Sud, contro 33,7 al Centro-Nord. Tale divario diviene macroscopicamente più ampio nel settore socio-assistenziale, nel quale il ritardo delle regioni meridionali riguarda soprattutto i servizi per gli anziani. Infatti, per ogni 10mila utenti anziani con più di 65 anni, 88 usufruiscono di assistenza domiciliare integrata con servizi sanitari al Nord, 42 al Centro, appena 18 nel Mezzogiorno.

Ancor più drammatici sono i dati che riguardano l’edilizia scolastica. A fronte di una media oscillante attorno al 50% dei plessi scolastici al Nord che hanno il certificato di agibilità o di abitabilità, al Sud sono appena il 28,4%. Inoltre, mentre nelle scuole primaria del Centro-Nord il tempo pieno per gli alunni è una costante nel 48,1% dei casi, al Sud si precipita al 15,9%.
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